Ha debuttato ieri, martedì 20 dicembre 2022, su Rai 2 la nuova serie tv dal titolo “The Net – Gioco di squadra” diretta dal regista Volfango de Biasi. Tra i protagonisti l’attore Yoon C. Joyce, che vanta nel suo curriculum film come “Nirvana” di Gabriele Salvatores, “Gangs of New York” di Martin Scorsese e serie tv come “The Vatican”, diretta da Sir Ridley Scott. Sul piccolo schermo ha fatto parte del cast di “Camera cafè”, “Rex”, “L’allieva”, “Squadra Antimafia”, “Provaci ancora prof” e molti altri progetti.
Noi di SuperGuidaTv abbiamo intervistato Yoon C. Joyce alla vigilia del debutto su Rai 2 della serie “The Net – Gioco di squadra”, e con lui abbiamo parlato di questo nuova e appassionate serie tv ambientata nel mondo del calcio, che lo vede protagonista insieme ad Alberto Paradossi, Gaetano Bruno, Massimo Ghini, Massimo Wertmuller, Beatrice Arnera, Orso Maria Guerrini e Maurizio Mattioli. Con Yoon C. Joyce abbiamo parlato anche della sua carriera come attore di film internazionali e delle difficoltà che ha incontrato nella nel mondo cinematografico. Yoon ci ha raccontato anche del suo privato, del difficile rapporto con suo padre e dell’essere stato vittima di razzismo e bullismo per le sue origini asiatiche.
Yoon C. Joyce: intervista all’attore della serie tv “The Net – Gioco di squadra”
“The Net – Gioco di squadra” è la nuova serie tv di Rai 2 che la vede tra i protagonisti. Cosa vedremo in questo nuovo progetto?
«È sicuramente un progetto molto più ampio, comprende tre blocchi principali: quello tedesco, quello italiano e quello austriaco. Tre serie tv che parlano di calcio che hanno in comune degli elementi come ovviamente il titolo, ma anche dei personaggi che vedremo in una serie e nell’altra. Si parla di calcio, ma in realtà è una metafora di qualcosa più profondo. The Net, che significa rete, sta a simboleggiare ovviamente la rete delle porte da calcio ma anche la rete di contatti, rete di un sottobosco, di intercettazioni, di corruzione. Questo ovviamente non deve far pensare che ci siano elementi che facciano riferimento alla mafia. È una serie tv che parla di fatica, di grande coraggio, di sacrificio, ma come in ogni ambito c’è il suo lato oscuro che poi è il rovescio della medaglia».
Ci racconti un po’della trama e soprattutto del suo personaggio?
«Io interpreto Zhang Bo, figlio di un grosso imprenditore cinese Lei Bo. In questa serie ci sono ovviamente riferimenti a fatti realmente accaduti. C’è una squadra di calcio che non naviga in buone acque, il cui proprietario si associa con questo grosso imprenditore cinese che non parla molto bene l’italiano. Questo imprenditore si affiderà quindi al figlio, il mio personaggio appunto, per fargli da portavoce. Il mio ruolo non ha quasi nulla delle sua cultura madre perchè lui è nato in Italia. Un po’ come quello che sono io, sono coreano di nascita ma sono stato adottato da una famiglia italiana all’età di tre mesi. Ad un certo punto il mio personaggio si scontra con il figlio del proprietario della squadrano scontro molto forte che pii darà vita a un sodalizio tra i due giovani. La serie è ambientata in Toscana. È la prima volta che in Italia mi affidano una parte di un orientale che è nato in Italia. Questo è stato un po’ il mio dramma che ho vissuto nella mia carriera».
Questa serie parla appunto di calcio e di vicende legate all’acquisizione di una squadra. Troveremo dei riferimenti a vicende realmente accadute? Oggi si parla molto di uno scandalo in particolare.
«È sicuramente la prima volta che viene fatta una serie del genere sul mondo del calcio e che tocchi determinati temi. Penso che ci sarà qualcosa che prende spunto sicuramente dalla realtà, come avviene per ogni serie tv o film».
Cosa ritrova di lei nel suo personaggio?
«Sicuramente mi accomuna la mia identità: io sono italiano ma nato in Corea. Siamo diversi, lui è un codardo perchè non ha il coraggio di affrontare il padre, un uomo che ha determinato tutte le sue scelte. Anche io ho avuto un padre molto prepotente nella mia vita, che ha cercato di massacrarmi psicologicamente perchè non ha mai accettato le mie scelte di vita, le mie scelte lavorative. Lui ha sempre sostenuto che io fossi la sua più grande delusione. Questo ha determinato molto di più la determinazione con cui ho affrontato la mia carriera. Durante la mia infanzia ho viaggiato molto per seguire la mia famiglia, mio padre si aspettava che io facessi una vita più ordinaria, invece ho scelto un altro stile di vita, io dipingo, mi piace l’arte, faccio cinema».
Ha lavorato con i più grandi registi del mondo: Gabriele Salvatores, Martin Scorsese, Sir Ridley Scott. Cosa si prova quando arriva una proposta da registi di questo calibro?
«Sicuramente quella con Ridley Scott è stata l’esperienza più grossa e più strana della mia vita. All’epoca del provino non mi dissero nemmeno il nome del regista. Mi chiamarono al telefono, ero sul set di un altro film, e mi dicono che c’era questo provino. Io ero lì sul set non potevo abbandonare il seti per andare a fare un provino, allora mi dissero di mandare stesso io un video girato con il cellulare. Dopo un po’ mi dissero che volevano incontrarmi che mi avrebbe chiamato la casting director, che era una delle più importanti. Quando chiedo il nome del regista mi viene detto che non è al momento possibile avere questa informazione. Mi presento al provino e non mi ero accorto che dietro di me c’era Ridley Scott seduto su una sedia. La prima cosa che mi dice è: “tu non sei filippino?” Dissi: “No”. Pensai che non mi avrebbe preso, invece mi disse di non preoccuparmi. Feci un provino di un’ora e mezza».
«Quando uscii dalla stanza mi dissero che ero l’unico che avevo avuto tutto questo tempo. Gli altri avevano avuto al massimo cinque, dieci minuti ed erano stati mandati via. Dopo un mese mi danno la parte. Sul set lui voleva essere chiamato Ridley, e voleva che parlassimo direttamente con lui per qualsiasi cosa. Anche Scorsese, un altro grande regista, con cui ho condiviso aneddoti che ricorderò per sempre».
Coreano di nascita ma italiano di adozione: caratterialmente cosa prende della Corea e cosa dall’Italia?
«Questo si collega ad alcune osservazioni che mi hanno fatto alcuni registi tra cui anche Ridley Scott. Mi dicevano: “Tu sei asiatico ma hai alcuni modi di fare praticamente occidentali”. Gli asiatici non fanno certe espressioni. I miei punti di riferimento sono tutti con espressività fisiche occidentali. Di coreano qualcosa è emerso negli ultimi anni. Io ho sempre vissuto all’italiana, mangiato all’italiana. Fino ai trent’anni non ho avuto contatti con la Corea. Sono andato in Corea perché invitato dal governo coreano dopo che avevano saputo che ero stato vittima di un episodio a sfondo razziale e che era finito sui giornali. Mi invitarono a fare un viaggio nella mia terra madre. All’inizio pensavo fosse uno scherzo. Ho scoperto una terra diversa dall’idea che avevo. Ho scoperto una megalopoli straordinaria, con una grande apertura e una grande umanità. Ho scoperto il cinema coreano. I coreani non vanno a vedere i film italiani perchè vengono rappresentati come pezzenti, malviventi, figure non piacevoli».
«Quando tornai dalla Corea in aereo piansi, perchè io fino a quel momento mi ero vergognato di essere coreano. Poi ho avuto un padre che non mi ha aiutato, anzi ha fatto l’opposto. Quando ho iniziato a lavorare ho capito di non dovermi vergognare delle mie origini. Quando andai a Mediaset nei primi anni di carriera, per i primi lavoretti a “Mai dire Gol”, fu lì che capii che la mia fisicità non era motivo di scherno ma un valore aggiunto. Da quel momento ho scoperto che la mia faccia, che mi aveva fatto soffrire, poteva essere la mia arma. Io volevo che mi riconoscessero non come Yoon il coreano ma come Yoon un bravo attore».
È stato vittima di razzismo e di bullismo, è arrivato a odiare le sue origini: è in quel momento che ha superato quel periodo?
«È stato un periodo lungo, perchè dai 16 anni in poi man mano ho capito. Ho avuto al mio fianco mia madre che mi ha aiutato molto. Anche quando sono stato in America non è stato facile».
Lavorare con registi importanti, può essere considerata anche una rivincita su suo padre?
«Mio padre ha cercato di annientarmi. Non so quale fossero i suoi motivi, lui era una persona molto colta. Questa rottura si è creata quando ci siamo trasferiti in Italia. È come se avesse scelto di troncare il nostro rapporto. Le mie capacità, io dipingo, ho esposto a Venezia, a lui non piaceva, non gli andava giù. Penso che lui fosse imprigionato nelle sue origini, lui è cresciuto in un paesino. Uno psicologo mi disse che questa anaffettività non è riuscita a gestirla. Devo dire che se lui non avesse avuto questa reazione io non avrei fatto quello che ho fatto, mi ha spronato in quello che ho fatto».
Cosa direbbe a suo padre oggi?
«Ho scritto anche un libro, la prefazione è stata: “Non sono stato il figlio che avresti voluto, ma io ho iniziato a scrivere le pagine della mia vita per me”. Gli direi grazie per quello che ha fatto, perché mi ha adottato. Io sono stato abbandonato, affidato a una famiglia che poi si è rivelata non idonea, rimandato in orfanotrofio e poi assegnato a questa coppa italiana. Per me era diventata un’ossessione riuscire ad interpretare ogni ruolo, perchè mio padre mi disse che sarei rimasto solo tutta la vita. Avevo avuto un’esperienza con una ragazza e lui mi disse che nessuna ragazza sarebbe stata con un asiatico, “che razza di figli sarebbero nati”. La madre di questa ragazza, era lei che non voleva che frequentassi sua figlia perchè “Dio ha creato persone diverse perchè ognuno stesse con i propri simili».
Non ha mai cercato le sue origini?
«Quando sono stato in Corea si. C’era una grande esposizione mediatica, sono stato ospite di una trasmissione che ha parlato della mia storia. I miei genitori però sono questi, quelli che mi hanno cresciuto».
È soddisfatto del suo lavoro o le è stato negato qualcosa?Soprattutto in Italia intendo.
«Mi è stato negato molto. Vede io mi rendo conto che se un regista fa un film del ‘700 io non sono adatto ad interpretare un ruolo, ma se fai un film moderno, io perchè non potrei interpretarlo».
Oggi cosa si senti di dire a lei bambino che veniva bullizzato?
«Qualche giorno fa guardavo una foto di me da bambino e pensai proprio a questo. Gli farei capire che è una persona speciale e che sarebbero accadute tante cose che gli avrebbero segnato un percorso, ma che a quel tempo non era chiaro. Voglio raccontare le un aneddoto: io ho girato un film in cui interpreto un tibetano, dopo aver fatto questo film ricevo una telefonata e mi dicono che il Dalai Lama mi vuole dare udienza privata. Devo partire, poi mi fanno sapere che il Dalai Lama sarebbe venuto in Italia e lo incontro a Roma. Vede ci sono tanti aneddoti come questo che hanno segnato la mia vita».
A chi sente di dire grazie?
«Lo so che sembrerò un mammone ma io devo ringraziare mia madre».
Lavorativamente?
«Tutte le persone che hanno creduto in me, le mie agenti, i registi, gli attori che hanno lavorato con me. Ogni persona che mi è stata vicina e non mi ha abbandonato. Io sono convinto che il cinema italiano crescerà quando abbatterà queste barriere dei clichè sugli orientali, sulle persone di colore. Dove sta scritto che un cinese non può parlare il romanesco».
Progetti futuri?
«Non posso ancora raccontare molto, ci sono tanti progetti, spero che arrivino molti progetti da registi italiani. Ricordo che Volfango de Biasi regista di “The Net – Gioco di squadra” mi disse che questo mio personaggio potrebbe cambiare molte cose».