Che direzione avrebbero preso le sit-com se non ci fosse stata The Office a guidarle? Ci troveremmo sicuramente in un panorama seriale molto diverso da quello di cui godiamo attualmente, perché ogni singolo prodotto umoristico moderno – volente o nolente – è costretto a rapportarsi con questo vero e proprio gigante dell’industria, sia nel proporre dinamiche lavorative che nello sviscerare rapporti umani. Lo show ideato da Greg Daniels è uno dei pinnacoli della comicità televisiva, continuamente imitato (a volte con intelligenza, altre senza aggiungere nulla di nuovo) ma sempre irraggiungibile dall’alto del suo valore culturale.
The Office, la trama
Lo spunto narrativo della serie è volutamente noioso e (all’apparenza) senza particolari velleità: una troupe decide di girare un documentario sulla vita lavorativa di un ufficio in Scranton, dove i dipendenti della Dunder Mifflin vendono prodotti di carta, come risme e simili. Non è chiaro perché abbiano scelto quella specifica filiale di un’azienda molto vasta, né perché vogliano documentare proprio il mondo della carta – sebbene qualcuno vociferi che vogliano filmare gli ultimi rantoli di un’industria morente –, l’unica certezza è che i dipendenti si trovano microfonati e seguiti in ogni angolo dell’edificio da una telecamera a spalla.
Non hanno particolari istruzioni, gli viene chiesto di comportarsi normalmente durante le ore di lavoro, ma non è semplice rimanere naturali quando sai di essere inquadrato. Le luci della ribalta, ad esempio, accendono il carattere espansivo del manager regionale Michael Scott (Steve Carell), ma non hanno alcun effetto sull’addetto alle vendite Jim Halpert (John Krasinski), né sulla tranquilla segretaria Pam Beesly (Jenna Fischer). Il resto della squadra è composto da altri venditori, contabili, responsabili del servizio clienti e dei rapporti con i fornitori, mentre ai piani inferiori i magazzinieri hanno creato una squadra che – sia per la lontananza dagli uffici che per la loro estrazione sociale – sembra quasi non rispondere all’autorità del manager, il quale a sua volta non considera il Toby Flenderson (Paul Lieberstein) delle risorse umane un membro della sua famiglia lavorativa.
Le mansioni alla Dunder Mifflin sono incredibilmente noiose, ed è anche per questo che il documentario si trasforma subito in una finestra sulle vite personali dei dipendenti più che sul loro lavoro, permettendo di scoprire soggetti unici dai sogni più disparati, ognuno con le proprie debolezze e virtù.
Perché guardare The Office
Nato come trasposizione dell’omonimo show inglese creato dallo spumeggiante Ricky Gervais (che compare nella versione americana con un cameo storico), The Office U.S. impiega ben poco per trovare un’anima tutta sua, slegandosi dalla controparte europea nel giro di un paio di episodi e diventando così unico ed inimitabile. L’ideatore Greg Daniels ha preso spunto dall’opera del comico per creare una sit-com che ai tempi non poteva essere paragonata a nulla, mentre oggi è attorniata da produzioni estremamente simili che le rendono omaggio senza soluzione di continuità.
I meccanismi narrativi dello show sono molto semplici, poiché ogni episodio propone una storia auto-conclusiva con minimi sviluppi di trama orizzontale: il principio è sempre vario e prende il via dalla noiosa vita da ufficio – l’incontro con un cliente importante, l’immancabile festa di Natale o una conferenza per la sicurezza sul luogo di lavoro – per poi evolversi in modo spesso imprevedibile verso i lidi del caos e dell’assurdo. L’intera carica umoristica dello spettacolo si poggia sulle spalle di personaggi indimenticabili, diventati nel tempo dei veri e propri classici grazie al loro veleggiare sul sottile confine che divide la macchietta dalla persona credibile.
Sono a dir poco esilaranti i continui scontri tra Jim ed il suo odiato collega Dwight Schrute (Rainn Wilson), un uomo votato al lavoro che ha elevato la sua discendenza tedesca verso vette di anaffettività totale, ma non sono da meno i problemi contabili che Angela Martin (Angela Kinsey) deve risolvere per colpa del gigantesco Kevin Malone (Brian Baumgartner), il tutto mentre Stanley Hudson (Leslie David Baker) fissa l’orologio in attesa di abbandonare quel maledetto ufficio e tornare a casa.
Il team è un calderone umoristico sempre in ebollizione, capace di trovare nuovi spunti comici dall’intreccio di queste personalità discordanti creando meccaniche imprevedibili, le quali riescono sempre a strappare una grassa risata. Nonostante la partecipazione attiva di tutti gli elementi del cast, tra protagonisti e personaggi ricorrenti, su ognuno domina la presenza di uno Steve Carrell semplicemente iconico nel suo proporre Michael Scott, il manager più fastidioso e meno temuto del mondo. Infantile, stupido e fastidioso, questo boss improvvisato è un amabile bambinone che viene accudito dai suoi stessi sottoposti, costretti a camminare sui carboni ardenti quando si rapportano a lui a causa del suo status di capo.
Michael considera i colleghi come la propria famiglia, e questo perché non è ancora riuscito a coronare il sogno di sposarsi ed avere numerosi bambini: oltre alla scoppiettante carica umoristica, lo show dedica infatti enorme cura al tratteggio di personalità credibili, inscenando rapporti umani che riescono a coinvolgere lo spettatore portandolo a supportare una delle parti in causa. È complicato non empatizzare con Jim ed il suo amore taciuto per Pam, con la quale c’è un legame evidente tenuto a freno dal suo essere già fidanzata, ma anche i problemi coniugali di Stanley hanno il loro spazio nella storia, così come la sessualità nascosta di Oscar Martinez (Oscar Nunez) e la famiglia disastrata di Meredith Palmer (Kate Flannery). The Office presenta questa pletora di personalità senza abbandonare quasi mai i confini del comico, ma riuscendo lo stesso a descriverli con attenzione slegandoli dalla loro apparente forma caricaturale.
Attorno a loro, a riprova dell’importanza cruciale che lo spettacolo ha avuto sull’intera industria televisiva, vortica un numero spropositato di personaggi secondari di fama indiscussa, come Idris Elba, Jim Carrey, Amy Adams, Will Arnett, Jack Black e tanti altri, mentre la carriera dei protagonisti è schizzata verso l’Olimpo soprattutto grazie alla partecipazione allo show. Il John Krasinski che oggi conosciamo per aver scritto e diretto A Quiet Place deve tutto a Jim Halpert, ma anche l’Ed Helms di Una Notte da Leoni è diventato famoso vendendo carta a Scranton, così come l’Ellie Kemper di Unbreakable Kimmy Schmidt. Basta guardare due delle nove stagioni che compongono lo show per trovare dinamiche riproposte in continuazione dalle sit-com successive, apprezzando così il valore innovativo di una serie apripista per la comicità moderna, ma tutt’ora ineguagliata nonostante gli innumerevoli tentativi di imitazione.
Perché non guardare The Office
Risulta davvero complicato trovare un motivo per sconsigliare la visione della serie, e non è soltanto per una bacheca trofei e nomination così vasta da intimorire, né per l’importanza cruciale che ha avuto sull’intero medium televisivo, ma perché – se siete alla ricerca di uno show che vi faccia ridere – The Office non deluderà nemmeno per un istante le vostre aspettative. Sul lungo periodo alcune dinamiche personali potrebbero ingolfarsi in fasi di stanca, e le ultimissime stagioni soffrono la mancanza di uno dei personaggi fondamentali del cast, ma anche nei suoi peggiori momenti la visione dello show rimane preziosa e coinvolgente.