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The Last of the Sea Women, la recensione del documentario

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Sono diventate patrimonio UNESCO, portatrici di una tradizione che con il passare del tempo rischia sempre più di essere dimenticata e che un documentario come The Last of the Sea Women fa bene a ricordare, ampliandone la conoscenza al grande pubblico. Disponibile nel catalogo di AppleTV+ dove è entrato nella top 10 dei film più visti, il progetto è prodotto dalla compagnia A24, ormai sinonimo di qualità, e ci accompagna alla scoperta di queste donne uniche e di un mestiere da preservare ad ogni costo.

Le haenyeo sono sommozzatrici che lavorano nella provincia sudcoreana di Jeju, il cui compito è quello di immergersi nelle acque locali per raccogliere molluschi, alghe e altre forme di vita marina che si trovano in quel mare. Lavoratrici diventate ormai un simbolo rappresentativo della struttura familiare semi-matriarcale della provincia, che come scopriremo nel corso dei cento minuti di visione si trovano ad affrontare oggi molte difficoltà.

The Last of the Sea Women: in fondo al mar – recensione

La prima è il fatto che le nuove generazioni difficilmente si interessano a un mestiere così arcaico e faticoso, tanto che viene realizzato senza l’ausilio di bombole di ossigeno e obbliga a trascorrere ore e ore sott’acqua, spesso in apnea, ogni giorno, con sveglia mattutina e poco tempo libero. In segno di rinnovata speranza, il documentario focalizza a un certo punto la sua attenzione su due giovani che hanno deciso di cimentarsi e diventare haenyeo, pubblicizzando la loro attività su un canale YouTube e riaccendendo parzialmente la passione per questa vita dura e anacronistica.

Ma il focus si concentra principalmente sulle più anziane, con un età media assai avanzata, e sui racconti di un’intera esistenza trascorsi sotto e sopra la superficie, con ricordi e rimpianti che si alternano in un malinconico tour de force su ciò che era e su ciò che potrebbe essere in futuro. E quando il pericolo dato dallo sversamento delle acque reflue di Fukushima in mare aperto – Giappone e Corea del Sud sono geograficamente attigui – può compromettere tutto per sempre, queste pescatrici coraggiose faranno di tutto per far valere le loro ragioni contro una politica che non ha più rispetto per l’ambiente e per chi lo abita.

Una causa comune

The Last of the Sea Women arriva così a incarnare anche un fondamentale e condivisibile messaggio ecologista, nell’ennesima battaglia di Davide contro Golia che vede anche una della matriarche recarsi direttamente nella sede dell’ONU per perorare quella causa probabilmente già perduta in partenza. E in un racconto che si fa sempre più antropologico, con la cultura indigena che viene espressamente approfondita come quando si pone l’accento sui riti sciamanici nella preghiera al dio del mare o nei festival atti a celebrare questo patrimonio culturale unico.

Un patrimonio fatto di persone, che nonostante tutto e a dispetto degli acciacchi continuano imperterrite a impegnarsi in ciò a cui hanno dedicato tutta la vita. La regia di Kim Sue è sempre lucida e attenta nel fotografare e immortalare delle storie che diventano metafore universali, nel quale il pubblico di ogni latitudine può facilmente identificarsi.

Conclusioni finali

Le haenyeo sono delle donne sommozzatrici che da tempo immemore svolgono il loro lavoro nella provincia sudcoreana di Jeju, tanto da essere state proclamate patrimonio UNESCO. The Last of the Sea Women è un documentario che offre uno sguardo a tutto tondo, non soltanto sulla loro attività e sul rischio che questa si estingua per via di un’età media sempre più avanzata, ma anche sul dramma globale del riscaldamento climatico e dell’inquinamento ambientale, concentrandosi in particolar modo su un cruciale evento clou.

Le storie personali di alcune di queste anziane donne si intrecciano così con uno sguardo contemporaneo, tra passato, presente e futuro di un mestiere antico, che rischia di rimanere soltanto un ricordo impresso nella tradizione in un mondo che cambia inesorabilmente e non per forza in meglio.

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