Suburbicon, la recensione del film di George Clooney

film Suburbicon

Nel 1959 il quartiere di Suburbicon è quanto di meglio l’uomo borghese americano possa desiderare: casette unifamiliari, negozi accessoriati e una quiete a tasso zero di criminalità. La comunità viene scossa dall’arrivo di una famiglia di colore, che si è appena trasferita in una delle villette messe in vendita, e gran parte degli abitanti non esita a manifestare i suoi ideali razzisti in riunioni cariche di odio e pregiudizio. Nel frattempo Gardner Lodge, che vive a Suburbicon con la moglie paraplegica Rose, con la di lei sorella gemella Margaret e con il figlio piccolo Nicky, è vittima di un’irruzione casalinga da parte di due loschi individui: questi addormentano la famiglia con il cloroformio e Rose perde tragicamente la vita in seguito ad un’overdose. Mentre tutti si affrettano a dare la colpa ai nuovi arrivati, per loro sfortuna vicini dei Lodge, emerge una verità ancora più inquietante e Nicky si troverà coinvolto in un intrigo di segreti e bugie che si annidano proprio all’interno della sua stessa famiglia.

Suburbicon, la recensione del film

Dai primi anni del nuovo millennio George Clooney sta portando avanti una fortunata carriera non solo davanti, ma anche dietro la macchina da presa. Dopo il folgorante esordio con Confessioni di una mente pericolosa (2002) l’esperienza registica è vissuta tra alti – Good night, and good luck (2005) – e produzioni più lineari – Monuments Men (2004) – concedendosi anche irruzioni inaspettate sul piccolo schermo (con l’apprezzata e recente miniserie a sfondo bellico Catch 22). Il suo ultimo lavoro in cabina di comando per il cinema risale al 2017 e può contare sulla fondamentale mano, in fase di scrittura, dei fratelli Coen, amici di vecchia data di Clooney con il quale hanno collaborato diverse volte in passato e che hanno ripreso uno script da loro steso già nel 1986.

E Suburbicon effettivamente esalta in fase di stesura molti dei topoi tipici dei famosi consanguinei, con un’ironia nera tipica del loro stile qui declinata su tonalità ancora più dark del solito. Già dai titoli di testa, realizzati in pieno look pubblicitario anni ’50 in una sorta di approccio parodico, l’elemento satirico sarà una costante dei cento minuti di visione: il primo sguardo all’omonima cittadina, con casette tutte in fila, musichette spensierate e il postino che consegna le missive porta a porta, riconsegna ad un’idea di “sogno americano” flirtato attraverso i canoni del white power e non è un caso che la scoperta che tra i nuovi cittadini vi sia una famiglia afroamericana cambi completamente toni e atmosfere.

La narrazione sfrutta questa alternanza tra la generale situazione di razzismo che permea la comunità intera e le dinamiche interne alla famiglia Lodge, in una sorta di parallelismo tra pubblico e privato atto a mettere in mostra le brutture dell’animo umano senza restrizione alcuna. E allora il via ad un insostenibile crescendo di tensione, capace di toccare picchi elevati soprattutto nella parte finale (la sequenza del letto è magistrale nella sua semplicità), dove il black humour gioca ad ogni modo un ruolo fondamentale nell’alleggerire parzialmente i toni più amari e crudi.

Tra citazioni più o meno volute ad un grande classico come Ore disperate (1955), forzature tanto evidenti quanto volute nella loro aura esplicitamente dissacratoria, Suburbicon lancia con forza il messaggio di partenza, abbellendosi ulteriormente con la colonna sonora del maestro Alexandre Desplat e con le performance di Matt Damon e Julianne Moore (quest’ultima in un doppio ruolo, seppur per breve tempo), abili nel rendere i rispettivi personaggi credibili e caricaturali al contempo.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here