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Spellbound, la recensione del film d’animazione (no spoiler)

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Nel magico regno di Lumbria, la Principessa Ellian deve affrontare una situazione alquanto spinosa e complicata: da ormai un anno i suoi genitori, il Re Solon e la Regina Ellsmere, sono stati trasformati in mostri selvaggi, in seguito a un viaggio nella Foresta dell’Eterna Oscurità. I consiglieri reali, i ministri Bolinar e Nazara Prone, ritengono che alla ragazzina – prossima a festeggiare quindici anni – spetti il compito di assumere il ruolo di sovrana, proprio nel giorno del suo imminente compleanno.

In Spellbound, soltanto lei e i suoi più stretti consiglieri sono a conoscenza delle reali condizioni di mamma e papà e quando queste vengono infine alla luce in una circostanza a dir poco caotica, le guardie imperiali decidono di imprigionare quelle che considerano, ignorando la verità, come creature pericolose. Ellian riesce a liberarli e intraprende con loro un’incredibile avventura per spezzare la maledizione una volta per tutte e riavere finalmente la sua famiglia di un tempo.

Spellbound, recensione: Uno spettacolo variopinto

Sulla carta prometteva di essere uno dei film d’animazione dell’anno, ma a conti fatti si è rivelato un’operazione senza dubbio godibile ma non trascendentale. Nuova esclusiva del catalogo Netflix, Spellbound è un film d’animazione dalla spiccata anima musical e non poteva essere altrimenti dati i nomi coinvolti: a curare la colonna sonora infatti troviamo Alan Menken, autore delle canzoni di alcuni dei più iconici classici Disney come La sirenetta (1989), La bella e la bestia (1991), Aladdin (1992) e Pocahontas (1995).
Nonostante l’invidiabile curriculum, in quest’occasione i pezzi finiscono per risultare meno avvolgenti del solito, più attenti al significato del testo che a creare una melodia catchy e orecchiabile. Sia chiaro, la componente sonora è comunque di tutto rispetto, ma ci si attendeva forse qualche guizzo in più.

Tra meraviglie e dura realtà

Lo stesso si può dire anche per l’impatto visivo, che è altrettanto gradevole ma mai capace di imporsi in un mercato di produzioni di sempre più alto livello: una palette di colori variegata e scene d’azione rocambolesche e fracassone caratterizzano così gli abbondanti cento minuti di visione, con quel sense of wonder che non fa mai effettivamente capolino nella missione di ricongiungimento familiare della combattiva e determinata protagonista. La mano di John Lasseter, noto per il suo glorioso passato alla Pixar e qui in fase di produttore, finisce per non incidere più di tanto, lasciando pregi e difetti alla regia di Vicky Jenson, già co-regista del primo, iconico, Shrek (2001).

La sceneggiatura popola il racconto di personaggi buffi e situazioni comiche, con il chiaro intento di indirizzare la storia al pubblico dei più piccoli, con un colpo di scena finale relativo ai rapporti tra i personaggi che Oltreoceano ha fatto storcere il naso alle ali più conservatrici. Per via di un finale che non ha paura di affrontare tematiche drammatiche e amare, realistiche in questa contemporaneità dove spesso le famiglie si ritrovano divise: al centro resta sempre e comunque l’amore per quella figlia, frutto di un’unione che va incontro sì a una probabile separazione ma non dimentica i bei momenti trascorsi insieme.

Conclusioni finali

Formalmente decoroso, discretamente spettacolare sia per gli occhi che per le orecchie, ma mai in grado di imporsi come nuovo potenziale cult. Spellbound offre buoni spunti a livello narrativo, discorso sulle relazioni in primis, ma non è altrettanto incisivo nella gestione dell’animazione e dell’anima musical, che non riescono mai a lasciare il segno.
La storia di questa principessa adolescente che cerca di spezzare la maledizione che ha colpito i genitori, tramutati in simpatici mostroni senza cervello, si rivolge soprattutto al pubblico dei più piccoli, che si faranno facilmente conquistare dalle note e dalle immagini, ma nonostante i nomi assai eccellenti in fase realizzativa e produttiva fatica a trovare una propria, precisa, identità.

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