Mindhunter: recensione senza spoiler del crime thriller prodotto da David Fincher

Mindhunter

La società di Reed Hastings deve molto del suo valore produttivo alle intuizioni di David Fincher: il regista di pellicole culto come Fight Club e Seven ha infatti lanciato la prima serie “made in Netflix” nel 2013, quell’House of Cards che in Italia passò attraverso Sky vista l’assenza della piattaforma streaming sul nostro territorio. Sull’onda delle reazioni entusiastiche da parte di critica e pubblico, Fincher affiancò ancora Netflix nella produzione di una nuova serie tv a distanza di quattro anni, dando alla luce un crime thriller tuttora ineguagliato per scrittura e regia. Mindhunter è un’opera molto complessa, che scandaglia la psiche di alcuni tra i più efferati serial killer americani per ricondurre le loro ossessioni alle mancanze familiari ed affettive.

Mindhunter, la trama

Al tramonto degli anni Settanta, le notti degli Stati Uniti sono buie e pericolose, perché numerosi assassini scelgono tra le persone casuali le loro prossime vittime. La polizia non riesce a seguire il filo di illogicità che lega questi omicidi apparentemente diversi, ma sembra assicurata la responsabilità di un unico colpevole quando il modus operandi si dimostra sempre identico. Tocca quindi all’FBI indagare su queste orribili tendenze, e lo fa intervistando i condannati nelle carceri per tentare di sviluppare una sorta di modello comportamentale, una profilazione che possa aiutare gli investigatori nel lavoro di tutti i giorni.

Il compito se lo crea essenzialmente da sé il giovane Holden Ford (Jonathan Groff) dopo un’interessante chiacchierata con il collega Bill Tench (Holt McCallany), che lavora al reparto di scienze comportamentali di Quantico. I due agenti sottopongono l’idea al loro superiore, il quale – nonostante non sia del tutto convinto del progetto – gli concede l’intervista ad Edmund Kemper (interpretato da Cameron Britton), un sadico pluri-omicida noto per la sua parlantina sciolta. Le parole del killer si rivelano delle preziose scoperte tra le mani dell’FBI, e grazie all’aiuto della professoressa Wendy Carr (Anna Torv) vengono trasformate in elementi ricorrenti nelle vite di questi assassini spietati, spunti su cui poter lavorare quando si è sulle tracce di un assassino metodico ed attento.

Perché guardare Mindhunter

All’interno del vastissimo panorama seriale, anche ricercando nei cataloghi dei altri distributori in streaming, non esiste un prodotto crime che possa rivaleggiare con la serie Netflix per serietà ed accuratezza storica, perché il suo racconto di quest’America dilaniata dalle incomprensioni è maledettamente crudo, e non tenta nemmeno per un momento di edulcorare la realtà dei fatti. Basato sull’omonimo romanzo scritto da John E. Douglas e Mark Olshaker nel ’95, la serie creata da Joe Penhall inserisce un leggero spunto fittizio ad una storia purtroppo autentica, perché i killer intervistati dai due protagonisti non solo sono esistiti davvero, ma erano celebri proprio per quelle sadiche tendenze che gli hanno fatto mietere centinaia di vittime.

Ambientata alla fine degli anni Settanta, la trama segue infatti le vere ricerche degli agenti che cercarono i punti in comune tra assassini apparentemente diversi, arrivando anche alla definizione di “serial killer” che prima di loro non esisteva. Seguendo le indagini di questi due investigatori, lo spettatore viene immerso nella mente perversa di noti assassini come il già citato Kemper, Richard Speck, Jerry Brudos e David Berkowitz, percorrendo un viaggio molto pericoloso all’interno di traumi e violenze che si scoprono incredibilmente ripetuti nel contesto sociale di un Paese in subbuglio. Nonostante una facciata di libertà ed agiatezza economica, infatti, gli Stati Uniti soffrono dall’interno le lacerazioni causate dalle guerre continue e dall’idolatria della violenza: tra padri assenti, madri anaffettive, alcolismo, scontri razziali e difficoltà a relazionarsi con i propri coetanei, sono numerosi gli individui che crescono coltivando strane tendenze fin dall’infanzia, ed alcuni di loro le hanno erette a motivo di vita una volta raggiunta la maggiore età.

Lo show Netflix, che vanta alla guida la mente dietro opere simili come Zodiac, non giustifica in alcun modo il comportamento di questi assassini, ma invita il pubblico ad un’analisi oggettiva di una realtà preoccupante, che lascia agghiacciati di fronte ai numeri spropositati dei crimini violenti made in USA. Seguendo uno sguardo attento e rispettoso che si rifà alla tradizione documentaristica, Mindhunter coinvolge con una trama dal ritmo pacato, in cui sono inizialmente le parole dei serial killer intervistati a colpire nel segno, per poi esplodere nell’agitazione quando Ford e Tench vengono chiamati per aiutare la polizia in alcune importanti indagini. I due protagonisti cercheranno quindi di applicare fin da subito le scoperte venute a galla con il loro lavoro, scontrandosi con le rimostranze di colleghi più pratici e soprattutto con la difficoltà di una profilazione efficiente.

Tra buchi nell’acqua ed intuizioni geniali, le loro inclinazioni personali li porteranno spesso a visioni discordanti: la caratterizzazione è uno dei pregi più evidenti della sceneggiatura, ed i personaggi sono sempre plausibili anche in alcune scelte estreme, resi inoltre ancor più brillanti dalle interpretazioni di un cast di alto livello. David Fincher firma la maestosa regia dei primi episodi (e di qualche puntata dall’importanza particolare), con la solita tendenza alle inquadrature ferme che conferisce enorme realismo alla visione, ma i suoi colleghi non sono da meno e contribuiscono a creare un colpo d’occhio magnetico, che usa con saggezza la fotografia gelida degli interni per ricreare le sensazioni di ansia e psicosi. Sorprendente si rivela infine la recitazione degli attori chiamati ad impersonare i serial killer perché, dopo uno studio profondo del loro ruolo, ridanno vita ai celeberrimi assassini emulandone la voce, i gesti ed anche le singole frasi, come è possibile apprezzare recuperando le vere interviste a questi soggetti squilibrati.

Perché non guardare Mindhunter

Lo show Netflix è universalmente riconosciuto come un capolavoro del genere thriller, e proprio la sua capacità di veicolare l’orrore di questi assassini seriali dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per le persone più sensibili ed impreparate. I dialoghi non lesinano sui particolari più scabrosi legati agli omicidi, e l’uso di foto di repertorio potrebbe risultare disturbante per la crudezza con la quale mostra le pene inflitte alle vittime. Se non vi preoccupano le tematiche molto mature sviscerate in queste due stagioni, sappiate però che Mindhunter non vuole essere un prodotto action o entusiasmante: proprio come un vero documentario, sono le conversazioni a dominare la scena ed il ritmo narrativo è spesso compassato.

Infine, particolare non da poco per i milioni di appassionati che hanno già goduto dell’esperienza, è bene ricordare come Netflix abbia messo in pausa la serie, che quindi – ad oggi – non ha un vero finale. Non si tratta di una vera e propria cancellazione, ma i responsabili hanno ammesso che i costi di produzione per un’eventuale terza stagione sarebbero elevatissimi, e per il momento non è possibile prevedere quando Ford e Tench concluderanno il loro viaggio nella psiche dei killer.

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