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Due vite parallele, la recensione del crime drama (senza spoiler)

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Santiago, 1955. Mercedes è una donna intelligente e competente, sposata con il fotografo Efraín e madre di due figli adolescenti. La famiglia vive in un appartamento molto piccolo, che funge anche da studio per l’uomo. Lei invece lavora come segretaria legale per il giudice Veloso Aliro, almeno fino a quando la sua routine non viene del tutto scombinata da un delitto che farà discutere e non poco l’opinione pubblica nazionale.
Mercedes si ritrova direttamente coinvolta, nelle vesti di assistente dell’uomo di legge, in un omicidio passionale che ha avuto luogo all’esclusivo Hotel Crillón.

La dinamica del crimine, avvenuto di fronte a molteplici testimoni, è inequivocabile: la scrittrice María Carolina Geel ha ucciso a sangue freddo il suo ricco amante Roberto Pumarino Valenzuela. Mercedes viene incaricata di andare a prendere alcuni vestiti in casa dell’accusata, mentre questa si trova in custodia della polizia, e da quel momento le sue visite alla sfarzosa dimora della scrittrice diventano sempre più frequenti.

Due vite parallele: tra sogno e realtà – recensione

Tra i produttori figura anche il grande regista cileno Pablo Larraín e forse proprio per questo era lecito attendersi qualcosina in più da questo crime drama all’insegna di un’amara leggerezza, ambientato in un contesto storico ben preciso e in una società altrettanto complessa.

Due vite parallele, disponibile su Netflix, risulta invece gradevole ma mai sorprendente, all’insegna di una semplicità apparente che schiva, volutamente o meno, le sfaccettature più complesse per affrontare la questione della condizione femminile da un punto di vista prettamente privato, ovvero quello della protagonista.

Protagonista che si ritrova suo malgrado a fare i conti con una situazione familiare stratificata e che per quanto ami la sua famiglia si sente oppressa da quella casa claustrofobica e rumorosa, trovando uno spazio di serenità tra le quattro mura dell’accusata, nel frattempo ignara di tutto e in procinto di affrontare l’imminente sentenza.

Tra verità e immaginario

Conosciuta in particolar modo per i documentari El agente topo (2020), geniale e paradossale detective-story in una casa di riposo, e il toccante The Eternal Memory (2023), la regista Maite Alberdi si approccia in questo caso al cinema di finzione con un moderno period-drama, costruito e centellinato su un ridotto numero di personaggi e su un intreccio relativamente esile. Intreccio che intende farsi messaggio universale sulla condizione femminile in quei convulsi anni Cinquanta, pur ancora lontani dalle future dittature che così profondamente sconvolsero il Paese sudamericano.

La storia è ispirata per altro a fatti realmente accaduti e che hanno monopolizzato l’interesse del gossip ma non solo ai tempi, e in Due vite parallele tutto viene messo in scena con un tono tra il gioco e la farsa, dilatando il dramma in una sublimazione dell’altro che, tra ricchezza e povertà, pone la protagonista in quei panni altrui. Panni che, per poco o tanto, saranno la sua momentanea scappatoia da una quotidianità che non sopporta più.

Conclusioni finali

L’omicidio commesso da una famosa scrittrice permette a una scaltra assistente legale di utilizzare la casa dell’accusata come scappatoia da quella umile vita in famiglia, per lei sempre più opprimente. E mentre il verdetto tra condanna e assoluzione si avvicina sempre di più, la protagonista si troverà di fronte a un bivio.

Due vite parallele è ambientato nel Cile degli anni Cinquanta e con tale setting ci si poteva attendere uno sguardo più cinico e lucido alla società e alla figura femminile in essa contestualizzata. Si è preferito invece un tono maggiormente leggero e personale, un percorso nella psiche di una donna carica di rimpianti che, almeno per un breve periodo, ha l’occasione di sognare un’esistenza diversa,in un mondo al quale è ineluttabilmente estranea.

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