La ragazza della palude, la recensione (no spoiler) del mystery dall’omonimo romanzo

la ragazza della palude

Nel 1968 Chase Andrews, il quarterback della squadra locale di una cittadina del Nord Carolina, viene ritrovato morto in quello che sembrerebbe essere un tragico incidente. Ma la comunità ha già trovato una colpevole per quel delitto ancora tutto da dimostrare: si tratta della giovane Kya, conosciuta come la Ragazza della Palude e considerata alla stregua di una strega. Cresciuta in una casa in mezzo alla natura dopo che la madre ha abbandonato la famiglia per le bizze di un marito violento, seguita poi dal fratello, Kya si è ritrovata completamente da sola quando anche il padre ha ripudiato per sempre quel luogo dimenticato da Dio, lasciandola al suo destino. Contro ogni previsione la bambina è riuscita a sopravvivere e giunta nell’adolescenza il suo legame con il coetaneo e vicino Tate Walker si trasforma da una semplice amicizia in un’amore passionale, prima che nuovi addii segnino il suo amaro destino.

La ragazza della palude: dalla carta allo schermo – la recensione

Alla base vi è l’omonimo romanzo pubblicato nel 2018 dalla scrittrice americana Delia Owens, che ha sfruttato la sua parallela carriera da zoologa e naturalista per raccontare una storia avente luogo proprio in un ambiente selvaggio, per quanto poco distante dalla cosiddetta “civiltà”. Una reietta malvista dalla comunità cittadina per via delle sue umili origini diventa così elemento sacrificale di un processo dove la sentenza sembrerebbe già scritta, nonostante l’assenza di prove certe e un alibi apparentemente inoppugnabile.

E allora La ragazza della palude scava nei flashback che restituiscono, minuto dopo minuto, l’esatta cronologia degli eventi seguendo una linea parzialmente prevedibile che toglie di fatto pathos e tensione alle scene madri e agli eventi clou che caratterizzano questa vicenda di (in)giustizia a orologeria, con il razzismo – non soltanto per il colore della pelle – quale elemento chiave anche in una sottotrama.

Assenza di climax

Ma nelle due eccessive ore di visione a mancare è soprattutto quello slancio emozionale che una vicenda sulla carta così complessa e sfaccettata avrebbe sulla carta dovuto possedere, ma che in questa trasposizione per il grande schermo ha curato più l’estetica rispetto alla sostanza. Tutto è preciso e compìto e di quella presunta violenza, fisica e morale, che già la palude in sé dovrebbe visivamente rappresentare con il suo sudiciume, non ve ne è traccia, in favore di un approccio misurato a prova di grande pubblico, che non a caso ha premiato il film al botteghino con un incasso worldwide di quasi 150 milioni di dollari e lo ha mandato nella top 10 dei titoli più visti su Netflix, dove è da poco disponibile.

Anche la stessa carica femminista e il girl-power risultano più sfuocati del solito, forse per via della scarsa alchimia tra il cast e il generale anonimato dei personaggi, soprattutto quelli maschili: i due principali contendenti della protagonista risultano paradossalmente quasi uno la fotocopia dell’altro anche dal punto di vista caratteriale, elemento che snatura la suspence e rende il tutto prevedibile nelle varie fasi processuali, destinate al solo epilogo possibile.

Conclusioni finali

La chiamano strega, ma è soltanto una bambina poi ragazza “colpevole” di essere stata abbandonata dalla sua famiglia e di essere sopravvissuta in quella palude che le ha fatto da casa. Ora ventenne, si ritrova accusata di un omicidio che non ha commesso e provare la sua innocenza non sarà semplice.

Adattando l’omonimo romanzo qualcosa è andato perduto, vuoi per una sceneggiatura e relativa messa in scena fin troppo pulite, vuoi per un cast poco ispirato tranne rare eccezioni. La ragazza della palude latita di emozioni e spreca i pur notevoli spunti narrativi, in un alternarsi tra le fasi processuali e i flashback che ricostruiscono la vicenda privandola della corretta energia tensiva.

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