His House, la recensione (senza spoiler) del film in streaming su Netflix

His House

Parlando di His House, horror che ragiona sul sociale in streaming su Netflix, è interessante partire proprio dal titolo per comprendere sin da subito il portato al quale Remi Weekes, sceneggiatore e regista, si vuole rifare. Un titolo che utilizza il generico “house” per intendere la casa, e non “home” che invece qualifica la “propria” casa. Il film infatti mette subito in tavola le sue carte nel breve prologo marcato sui tratti africani, dove condensa nel giro di qualche istante il dramma socio-culturale di chi dalla propria terra si trova strappato e riversato altrove, ospite spesso indesiderato.

Poi, per chi si salva a un costo altissimo, parte una lunga trafila di sguardi giudicanti ai quali dover sottostare, un subire e soccombere sotto la freddezza dello spietato e asettico linguaggio tecnico-burocratico. C’è anche chi all’interno di questa moltitudine di occhi che guardano e scrutano (questo un punto centrale di tutto il film) mostra un avvicinamento cauto. Così come il personaggio di Matt Smith, Mark, che compare poco ma è perfetto nel rimanere a metà nel grigiore di una middle-class – quella anglosassone – appiattita e svilita verso il basso.

His House, la recensione (no spoiler)

House e non home. Su questa differenza si delinea il cardine sul quale poggia la disperata ricerca di un nuovo senso di appartenenza di chi “laggiù”, da dove è fuggito, proprio non ci vuole tornare. Per alcuni, la coppia di coniugi Majur, nei lineamenti provati di Rial (Wunmi Mosaku) e Bol (Sope Dirisu), dovrebbe dimostrarsi grata di aver ricevuto tutta per loro una delle abitazioni più grandi tra quelle disponibili (tra i funzionari c’è chi commenta «più grande della mia»), seppur marcia da cima a fondo. Ora non resta che integrarsi tra quegli sguardi ostili.

Ma il percorso di elaborazione di un trauma persistente e profondo, come quello della traversata della morte affrontato dai Majur, non può essere accantonato così facilmente. Questo inizia così a impregnare le mura di una sistemazione di uno spazio alieno, che si popola di tutti i fantasmi di un dramma che spezza in due la mente e rende impossibile assegnare un luogo dell’essere a chi si sente perennemente fuori posto.

Qui stanno la bravura del regista e il punto di forza di His House. Ovvero nel non nascondere nemmeno per un momento la natura metaforica dal quale la sceneggiatura trae i suoi spunti migliori, declinati all’interno di una cornice di genere horror capace di mutare forma e adattarsi di volta in volta alla presa di coscienza dei suoi protagonisti.

His House, la nostra opinione del film

Se nel primo terzo di His House l’impianto orrorifico è giostrato sugli strappi di uno shock che si rifà al jumpscare come soluzione principale, la bontà dell’operazione è nell’agilità con cui trasla la narrazione in corso d’opera. Così muta in continuazione un testo filmico che in maniera procedurale inizia a riconoscere la minaccia e a identificarla a viso aperto.

Ciò che non si vuole vedere è sempre lì nascosto nell’oscurità. Basta metterlo in risalto strappandolo fuori dai muri e illuminandolo con efficaci giochi di luce e ombra per andare ad affrontarlo in un atto di espiazione che integra con successo, e senza troppi orpelli, una vena di folklore e spiritismo africano in una sorta di recupero identitario.

His House è partorito da un tema tristemente attuale e forse eccessivamente abusato a livello di immaginario cinematografico. Ma proprio in virtù di questo risulta convincente nel suo sapersi riconfigurare in una cornice differente che dona alla tematica uno spessore a suo modo unico e una nuova e inaspettata chiave di riflessione.

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