Cari lettori, ancora una volta mi trovo nella fantastica posizione di dover recensire un autore con la “A maiuscola”: John Carpenter. Straordinario interprete della rivoluzione cinematografica di stampo americano iniziata con il movimento artistico-culturale della “New Hollywood”, forte di uno spiccato senso di attivismo politico, sempre presente nelle sue produzioni, incentrato su una fiera e spietata critica verso l’edonismo reaganiano tipico degli anni’80, John Carpenter rappresenta senza dubbio un capitolo fondamentale della storia della settima arte.
John Carpenter, straordinario interprete della rivoluzione cinematografica di stampo americano
Partiamo dal principio: dopo aver regalato al panorama spettatoriale capolavori inestimabili quali “Distretto 13 – Le brigate della morte“, “Halloween – La notte delle streghe“, “1997: Fuga da New York” e “La cosa“, tanto per citarne alcuni, Carpenter decide di getto di stravolgere il proprio sguardo autoriale per darsi ad un curioso esperimento artistico improntato alla creazione di una commedia “sui generis”. Dico questo perché “Grosso guaio a Chinatown” è un film a sé stante, quasi un “unicum”, nel macrogenere comico.
Influenzata dalla immancabile poetica carpenteriana, la commedia si mescola abilmente al fantastico, all’azione tipica del cinema di arti marziali orientale, con qualche sapiente influenza dettata dall’amore dell’artista per il genere horror.
È il 1986, e purtroppo bisogna a malincuore segnalare che la pellicola rappresentò un disastroso flop commerciale ai botteghini, in quanto l’autorialità di Carpenter necessitò di molto tempo per essere canonizzata a pieno titolo, per cui molti dei suoi preziosissimi lavori subirono una formidabile operazione di rivalutazione che li fece entrare di diritto nel sempre prolifico sottogruppo dei “cult movies”.
Trama del Film Grosso guaio a Chinatown
Il camionista Jack Burton (Kurt Russell) è in viaggio verso San Francisco. Di tappa nel quartiere di Chinatown, decide di trascorrere la serata a giocare d’azzardo con l’amico Wang Chi (Dennis Dun), al quale riesce a spillare una considerevole somma di danaro. Il giorno seguente Jack accetta di accompagnare l’amico all’aeroporto per accogliere Mao Jin, promessa in sposa di Wang.
Lì la giovane viene però rapita da un gruppo di criminali locali chiamati i “Signori della Morte”. Questi portano la ragazza nel cuore di Chinatown per essere venduta in quanto in possesso di una qualità rarissima per una donna cinese: gli occhi verdi. Il camion di Burton li tallona e si infila nei meandri dei vicoli del quartiere andando a finire nel mezzo di un violentissimo combattimento tra gang rivali. Quando tutto sembra risolversi a favore della fazione pacifica, lo scontro viene interrotto dall’entrata in scena di tre potentissimi stregoni-guerrieri, dominatori degli elementi, chiamati “le tre bufere”.
Questi sono i più fedeli servitori del signore malavitoso locale: David Lo Pan (James Hong), che si rivelerà essere un’entità ancestrale, antico despota maledetto dal primo Imperatore Cinese a divenire una sorta di creatura non-morta incorporea destinata a rimanere in questo stato di vita apparente fino a quando non avesse sposato una donna dagli occhi verdi.
I due amici protagonisti si gettano quindi a capofitto nel rocambolesco tentativo di salvare la promessa sposa dalle grinfie del demoniaco Lo Pan, aiutati nell’impresa dal saggio cinese Egg Shen (Victor Wong), andando quindi a scontrarsi con antiche maledizioni, superstizioni magiche, esoterismo oscuro e adrenaliniche botte da orbi.
Recensione del film Grosso guaio a Chinatown, a cura di Christian Fregoni
“Grosso guaio a Chinatown” è un bellissimo gioiellino da ammirare lentamente, cogliendo ogni sottile accenno di brillantezza, scrutando attentamente per mirare le svariate sfaccettature che lo impreziosiscono. Partendo dall’impalcatura basale su cui si struttura l’opera, ovvero la pura appartenenza al genere comico, Carpenter intesse un’intricatissima rete di collegamenti, rimandi e citazioni ad altri stili cinematografici: si possono infatti riscontrare tematiche tipiche del fantasy (magia, esseri soprannaturali, creature fantastiche e mostri spaventosi), azione peculiare del “wuxia” cinese (il classico cappa e spada con scene di arti marziali abilmente coreografate) e stille orrorifiche debitrici dell’esperienza esordiale del regista.
Il film si fa forza della valenza morale dei suoi protagonisti e contemporaneamente la sbeffeggia, in quanto Jack Burton è ben lontano dall’appartenere al genere di eroe senza macchia e senza paura tipico del cinema muscolare anni’80. Quando all’epoca spopolava ormai l’action movie incentrato unicamente su interpreti dalle qualità più fisiche che artistiche, il camionista Kurt Russell è quanto di più lontano si possa immaginare da un classico paladino della giustizia.
Rozzo, fuori luogo, quasi mai conscio della reale situazione in cui è andato ad impelagarsi, Jack Burton è la perfetta summa concettuale di ciò che il regista pensa dell’americano medio: un buzzurro inconsapevole delle altre culture, unicamente spinto dal proprio bisogno materiale di riscuotere il denaro che gli deve il suo amico e dal desiderio di recuperare il suo camion, impunemente sottrattogli da esseri molto più grandi di lui.
L’aver completamente svuotato il suo protagonista da ciò che il genere ormai aveva ufficializzato, come se avesse snaturato uno Jena Plissken (per rifarsi a un altro lavoro del regista), è la grandissima trovata geniale del film. Burton non fa nulla durante tutta lo svolgimento della trama: ogni volta che si trova ingaggiato in una scena d’azione, il suo essere ignaro del contesto in cui si trova prende il sopravvento per cui inevitabilmente si trova tagliato fuori dalla condizione eroica che il suo ruolo richiederebbe, fino a che si giunge all’epilogo in cui, grazie “a una questione di riflessi”, la situazione si stravolge e lui può gloriarsi del suo ruolo di salvifico protagonista.
Ciò per cui invece sembra predestinato Jack Burton è fare da collante per tenere ben salda la struttura generale del film con la sua spiccata vena umoristica: l’idea che un individuo gretto come lui si possa trovare invischiato nella stregoneria esoterica cinese, senza veramente comprenderne l’essenza e le motivazioni, poiché unicamente spinto dalla sua ristretta visione del mondo: che si racchiude nel suo camion, in cui lui pontifica sentenze, quasi fosse un santone del “Burtonismo”.
Così assistiamo agli straordinari scambi di battute tra Burton e Lo Pan, che il camionista non esita a canzonare e deridere, come se si trattasse di un anziano qualunque, completamente inconsapevole dell’atavica malvagità con cui si sta rapportando. Oppure tutte le sequenze in cui l’eroe si trova ad affrontare i poteri sovrannaturali della stregoneria cinese, completo estraneo catapultato in una dimensione che non può concepire.
Come scritto in precedenza, è impossibile prescindere la politica, molto vicina al socialismo americano di Jimmy Carter, dell’autore dalla sua opera per cui ci ritroviamo nella condizione di simpatizzare per la minoranza etnica cinese, prevaricata dal signore della malavita locale, addirittura visto come un’entità malvagia millenaria, in una società che poco si cura dei suoi problemi: “gli sbirri hanno di meglio da fare che finire sbudellati”, tremenda affermazione lapidaria.
Non voglio soffermarmi eccessivamente sulla trattazione formalistica dello stile del regista, perché sarebbe come sfondare una porta aperta: che Carpenter sia un mostro sacro di talento registico è cosa risaputa da ogni cultore della settima arte. Il virtuoso talento dell’artista si muove armonioso tra i vari generi trattati senza perdere assolutamente di continuità per cui la fruizione del film risulta gradevole e l’intento d’intrattenimento originario non perde di consistenza.
Merito anche di una compagine attoriale di tutto rispetto, composta da alcuni interpreti che il regista non ha paura di riutilizzare anche in altri suoi lavori: tralasciando il grandissimo Kurt Russell, è doveroso menzionare il compianto Victor Wong (nel ruolo del mentore e stregone Egg Shen), caratterista dalla straordinaria capacità estetica, che Carpenter utilizzerà anche per un ruolo fondamentale ne “Il signore del male” (recuperatelo!).
Difficile trovare altri argomenti senza risultare esaustivamente prolissi, “Grosso guaio a Chinatown” deve obbligatoriamente godere del prestigio di cui originariamente era stato privato. Il valore della prima visione è altissimo, ma ciò non toglie nulla a fruizioni successive. C’è una sola parola per definire un’opera così: CULT!
VOTO: 8