La storia si svolge in un’idealistica cittadina degli anni Cinquanta. Jack e Alice Chambers, marito e moglie, vivono a Victory, in California, una piccola comunità formata da casette unifamiliari e abitata da coppie apparentemente felici. Gli uomini lavorano nella vicina centrale in pieno deserto, mentre le donne trascorrono le loro giornate tra le mura di casa aspettando il ritorno del coniuge. Alice è felice ma un giorno comincia a essere vittima di strane sensazioni che aumentano progressivamente; in parallelo un’altra delle residenti, Margaret, ha avuto un crollo nervoso dopo essere stata vista vagare nelle terre aride che circondano la città e da allora non si è mai ripresa. Alice stessa assiste a fenomeni inspiegabili e si mette in testa che suo marito le stia nascondendo qualcosa e che Victory non sia il luogo idilliaco che credeva.
Don’t worry darling: essere o non essere – recensione
Sicuramente perfettibile ma innegabilmente affascinante il secondo lavoro dietro la macchina da presa dell’attrice Olivia Wilde, che si ritaglia su misura anche un fondamentale ruolo secondario. Don’t worry darling – letteralmente traducibile come “non preoccuparti, mia cara“, la frase che i mariti dicevano alle mogli che le attendevano a casa – è un film fieramente femminista che riesce però a sfuggire dalle maglie della mera retorica grazie a quella narrazione accattivante, che recupera suggestioni da un cinema filo-fantascientifico innestandole in un’ambientazione citazionista anni Cinquanta.
Un decennio iconico che qui viene ripreso nei suoi marcati stereotipi, con la cittadina di Victory che è effettivamente “troppo bella per essere vera” e si fa da palcoscenico ideale di questa spietata resa dei conti tra i sessi, in un gioco di sotterfugi e bugie che si dirige verso un clamoroso colpo di scena che ribalta completamente le carte in tavola.
Spoiler alert?
Se volete non avere nessuna sorpresa, non leggete le prossime righe: non facciamo infatti spoiler diretti, ma similitudini con due opere che se viste potrebbero suggerire indizi chiave sulla suddetta svolta di sceneggiatura. I due titoli che vengono in mente sono infatti Serenity – L’isola dell’inganno (2019) e l’episodio cult per eccellenza della serie antologica Black Mirror, ovvero l’indimenticato San Junipero.
Ecco così che le varie piste innescate dalla narrazione appaiono ancora più illuminanti a una seconda visione, che permette di comprendere appieno eventi apparentemente inspiegabili. A dar forza e densità ad un film che vive sul machiavellico paradosso è soprattutto l’intensa performance della sua protagonista: se Harry Stiles nelle vesti di impeccabile maritino svolge il suo ruolo con la giusta idoneità, Florence Pugh dà vita a una figura tormentata che perde giorno dopo giorno sempre più contatto con la sua realtà, in un viaggio nella follia che finirà per aprirle finalmente la mente e con essa allo spettatore.
Il film è stato recentemente reso disponibile nel catalogo di Netflix.
Conclusioni finali
La cittadina di Victory è un vero e proprio sogno per chi vi abita, tra feste in piscina, villette unifamiliari e assenza totale del crimine. Un immaginario anni Cinquanta, con le donne figlie dell’era Barbie pronte a sacrificare la loro indipendenza per quella quietezza casalinga, in attesa che i mariti facciano ritorno tra le mura domestiche dopo una lunga giornata di lavoro. Ma quel velo di ipocrisia e di falsità è ora destinato ad infrangersi e la povera Alice lo scoprirà a proprie spese.
Il girl-power e l’emancipazione femminile vivono in un’estasi febbrile e inquieta in questo thriller psicologico che si ammanta di sfumature sempre più assurde e inspiegabili, fino a quel cliffhanger che rivoluziona l’intero asse narrativo innescando infine, tramite le briglie del fantastico, quello spunto di riflessione chiave, alpha e omega di un racconto cinico e spietato, a tratti sbilenco ma anche intrattenente e affascinante anche nei suoi passaggi più controversi, illuminato dalla caparbietà di un’afflitta Florence Pugh.