Derry Girls, la recensione della serie teen britannica

Derry Girls

Cosa c’è di più spaventoso di una bomba su un ponte, nell’Irlanda degli anni novanta? Per Erin, Clare, Michelle e Orla, a quanto pare, il primo giorno di scuola. Derry Girls è una serie di Lisa McGee, parzialmente autobiografica, che segue le vicende di un gruppo di ragazze (e ragazzo al seguito) alle prese con i problemi dell’adolescenza nella città di Londonderry. O Derry, a seconda dell’ideologia.

Derry Girls, la trama

La trama di Derry Girls è quella tratta vagamente dalle esperienze di vita della sua autrice, Lisa McGee, cresciuta a Londonderry, nell’Irlanda del Nord, nella seconda metà degli anni novanta. Epoca di feroci scontri e della violenza settaria soprannominata “The Troubles”, McGee racconta la storia di un gruppo di ragazze adolescenti che devono affrontare il primo giorno di scuola e i conflitti con i propri genitori. Il primo episodio, chiamato Episode One, introduce Erin, giovane impacciata che vive assieme a sua cugina Orla (Louis Harland) e a sua zia (Kathy Kiera Clarke) nella casa dei propri genitori, la coppia formata da Mary e Gerry. A completare il gruppo ci sono Clare (Nicola Coughlan) e Michelle (Jamie-Lee O’Donnell) che, come loro, stanno per fare la loro entrata nella scuola cattolica. L’Our Lady Immaculate College è, come suggerito dal nome, un college per sole ragazze, ma si fa eccezione per James (Dylan Llewellyn), cugino di Michelle: per via dei timori legati alla possibilità che in una scuola maschile venga picchiato, James diventa il primo ragazzo a essere accettato nella scuola. L’unico ragazzo e, peggio, anche l’unico inglese. Il gruppo di adolescenti non faticherà a farsi notare sin dal primo momento e passerà il primo giorno in punizione, dando il via a una serie di eventi catastrofici e paradossali.

Derry Girls, perché guardarla

Derry Girls è gioia per gli occhi della generazione di millennials che vive nella nostalgia degli anni novanta. Certo, il contesto di riferimento è molto specifico da un punto di vista geografico e culturale: non solo siamo nell’Irlanda del Nord sul finire di un conflitto lungo quarant’anni, in una lotta fra comunità cattolica e i protestanti dell’Ulster, ma la voce narrante che introduce il primo episodio ci tiene a sottolinearlo dalle prime battute, quando specifica che chiamare la propria città Derry o Londonderry basta a definire le idee politiche e la formazione identitaria di chi parla.

Eppure, la storia narrata da McGee non arriva mai davvero a intersecarsi strettamente con la materia politica: innanzitutto perché non è davvero una storia, quanto più un mosaico di microstorie che s’intrecciano di continuo e in maniera quasi scevra da un senso di consequenzialità e ordine temporale; e, poi, perché le (e gli) adolescenti al centro sono inquadrati come tali. Come, cioè, adolescenti che cercano di vivere semplicemente la loro adolescenza, in una dimensione in cui i tumulti diventano parte ordinaria della quotidianità ma i problemi veri, quelli giganti, sono personali e percepiti come insormontabili (è più grave la confisca di un rossetto nell’ora di punizione che il rischio di esplosione di una bomba, per fare un esempio).

La struttura della serie è esplicita in tal senso: 22 minuti per episodio non saranno mai abbastanza per raccontare cos’era l’Irlanda sul finire degli anni novanta, ma sono più che sufficienti per far ridere il proprio pubblico e permettere alle protagoniste di esprimere la propria personalità. Non per questo Derry Girls si limita a essere una sorta di sit-com – di cui prende il tono leggerissimo, piegandolo a un tipo di comicità squisitamente irlandese e a dir poco irriverente – come tutte le altre. Tutt’altro: pur negando al contesto storico la possibilità di diventare il centro e il fine del suo prodotto, McGee permea le vite delle sue protagoniste di ogni possibile riferimento culturale e lo fa in modo assolutamente realistico e verosimile, con un tocco mai improntato al nostalgia marketing, bensì a un senso di nostalgia autentico e generato dalla conoscenza in prima persona del mondo narrato e dalla spensieratezza di sguardo.

“Dreams” dei Cranberries risuona nel titolo del primo episodio, Pulp Fiction è il film violento che tutti vogliono vedere perché è la cosa più cool in sala, e Macaulay Culkin è l’attore che tutti conoscono ma di cui solo i ragazzi e le ragazze ricordano il nome. E tutto questo basta per vivere bene. Derry Girls porta dunque gli anni novanta a uno status finora concesso prevalentemente agli anni ottanta (tramite serie come Stranger Things) ma il suo universo non somiglia mai a un melting-pot di totem popolari e riconoscibilissimi, quanto più con un linguaggio intelligente che recupera dalla memoria individuale pochi (ma giusti) oggetti, audio o visuali, capaci di plasmare un’identità con poco sforzo. Il nucleo totalizzante di Derry Girls non è lo sfondo politico e culturale, bensì lo spirito di indipendenza e di autoaffermazione di cui si nutrono le adolescenti al centro della storia.

Derry Girls, perché non guardarla

In Derry Girls è del tutto assente una linea tematica fissa che attraversi gli episodi con rigore o struttura specifica: c’è una parvenza di ordine cronologico, ma non è accompagnato all’esigenza di una storia da raccontare. Non c’è una sola protagonista, ragion per cui non c’è una distribuzione di ruoli classica o uno scopo unico che dia senso alle ragazze di Derry. Derry Girls è, come già specificato, una serie diluita in episodi di vita in cui lo spettatore occidentale medio può facilmente riconoscere i propri, a dispetto di una confezione così apparentemente vincolata a un determinato contesto. Le preoccupazioni delle protagoniste (e dell’unico protagonista maschile) sono minime confrontate a ciò che si staglia sullo sfondo del loro paese, proprio come accadrebbe agli adolescenti che siamo stati e che altri saranno.

Si tratta di una strategia di racconto particolarmente adatta a uno spettatore che ha intenzione di cogliere il senso d’esistere di un prodotto così “libero”, ma che potrebbe non fare al caso dello spettatore affezionato alla linearità, alla solidità narrativa e a serie (o film) vincolate a una struttura più classica in cui sarebbe più facile e spontaneo orientarsi. Inoltre Derry Girls è caratterizzata da una forte identità culturale che sul piano di resa effettiva si traduce in dialoghi serratissimi, un registro comico costantemente sopra le righe e una leggerezza provocatoria. L’universo della serie è quello dell’adolescenza: ogni personaggio che sia non perfettamente aderente a un tipo specifico, quello del teenager (e marcatamente femminile), diventa laterale e funzionale, dunque secondario.

La scelta di rappresentazione stessa di ogni personaggio, anche quelli primari, flirta con la macchietta ma insinua sempre il dubbio che non sia nell’essenza stessa di un teen la tendenza ad associarsi allo stereotipo, nel tentativo di fondare la propria identità. L’atteggiamento è riscontrabile anche nei confronti di individui al di fuori di sé, come nel caso dell’unico personaggio di sesso maschile: non è possibile per James essere solo l’unico ragazzo, perché è prima di tutto anche l’unico inglese e quest’etichetta determina più di ogni altro tratto caratteriale o fisionomico la sua identità, contrapposta all’irlandese anche quando non è così differente. Tutto questo costituisce l’anima di una serie che può essere pienamente apprezzata solo se si scende a patti con la necessità di comprendere codici non mainstream, né universali o immediati. E se si scende a patti con la necessità di parlare la stessa lingua parlata da un gruppo di ragazze eversive a loro modo: un modo che ignora l’esterno e che si fa specchio di una femminilità variegata, autentica, come risposta alla sua storica riduzione a stereotipi che ormai non funzionano più.

Derry Girls, il trailer italiano

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