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Angels in America, recensione no spoiler della miniserie con Meryl Streep ed Al Pacino

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Angels in America è una miniserie del 2003 targata HBO, creata dallo sceneggiatore Tony Kushner (autore anche della famosa opera teatrale da cui è tratta) e diretta interamente da Mike Nichols, già regista premio Oscar per Il laureato. Assemblando un cast corale semplicemente stratosferico su cui svettano Meryl Streep, Al Pacino ed Emma Thompson, la miniserie attualmente disponibile su Sky On Demand e NOW TV è considerata tra le opere a tematica LGBTQ+ più influenti di sempre.

La trama di Angels in America

Nel 1985 l’AIDS è stata scoperta da poco ed è considerata ancora la peste dei gay. A New York, il corpo di Prior Walter (Justin Kirk) presenta già i primi segni di malattia e quando il ragazzo lo comunica al suo fidanzato (Ben Shenkman) quest’ultimo è spaventato dal peso psicologico della situazione, tanto che inizia a meditare sulla possibilità di abbandonare Prior. Intanto l’avvocato mormone Joe Pitt (Patrick Wilson) vive un matrimonio infelice, tentando di mascherare la propria omosessualità che lo spinge a non avere rapporti sessuali con la moglie Harper (Mary-Louise Parker), provocandole forti disturbi emozionali. Roy Cohn (Al Pacino), mentore politico di Joe e personalità famosa e vicina persino alla Casa Bianca, nega intanto l’evidenza della sua malattia, al fine di negare anche la propria omosessualità.

Nel corso del racconto fa visita a Prior un angelo (Emma Thompson) che afferma che egli è un profeta. Louis, il compagno di Prior, affronta le sue contraddizioni: l’amore per il compagno e l’incapacità di assisterlo durante la sua malattia, l’amore per l’America e il rifiuto della società omofobica in cui sembra essersi trasformata, l’amore infine che nasce per Joe Pitt e la repulsione che prova nello scoprire che il suo mentore è l’omofobo Roy Cohn. Nel frattempo, Joe cerca di conciliare la sua religione e la sua sessualità, mentre la madre Hannah (Meryl Streep) si trasferisce a New York per prendersi cura di Harper ma finisce per diventare amica di Prior, che ha appena fallito nel tentativo di affrontare Joe. Il personaggio interpretato da Al Pacino invece deve confrontarsi con la malattia che lo costringe in ospedale, dove gli fanno compagnia il fantasma di Ethel Rosenberg (sempre la Streep) e il variopinto ed ironico Belize (Jeffrey Wright), migliore amico di Prior ed ex drag queen.

Perché guardare Angels in America

Perché è conti fatti è uno dei prodotti destinati al mercato televisivo più importanti di sempre. Non soltanto perché è stato riuscitissimo adattamento dell’opera teatrale per molti infilmabile “Angeli in America: Fantasia gay su temi nazionali” di Tony Kushner, ma soprattutto perché ha saputo mescolare un racconto fortemente allegorico e surreale con alcuni dei temi e delle urgenze sociali che stavano caratterizzando gli anni ’80 in America: l’edonismo reaganiano, la crisi dell’AIDS all’interno della comunità LGBTQ e l’approcciarsi di un Nuovo Millennio carico di promesse e profezie. Il tutto retto da un cast semplicemente straordinario, premiato con gli Emmy Awards nel corso del 2004.

Angels in America ancora oggi parla con straordinaria contemporaneità al pubblico odierno, senza aver perso un milligrammo della sua rilevanza sociale e culturale. Un vero e proprio evento televisivo suddiviso in sei episodi ed in due parti narrative (Il Millennio si avvicina, Perestroika) che riportò in auge anche la carriera dietro la macchina da presa del regista premio Oscar Mike Nichols, che dopo i fasti de Il laureato e Chi ha paura di Virgina Woolf? si dimostra talento assoluto da regista, anche attraverso il mezzo televisivo.

La miniserie tratta dall’opera teatrale di Tony Kushner (che qui rimane comunque sceneggiatore) ha insegnato moltissimo alla televisione americana degli anni a venire, tanto che alcune delle serie più celebri di Ryan Murphy come ad esempio Pose e American Horror Story hanno preso a piene mani dal corollario narrativo e tematico di Angels in America, per certi versi.

Angels in America, perché non guardarlo

Forse perché potrebbe non soddisfare tutti i palati televisivi attuali. Di certo l’opera da palcoscenico di Kushner gioca moltissimo su più piani narrativi, allegorici e di registro: anche nella miniserie difatti, si passa con estrema e spiazzante facilità dall’ironia più salace e smaliziata al dramma puro e duro legato alla crisi dell’AIDS, fino ad arrivare ad alcuni tocchi spiccatamente surreali quando entrano in gioco angeli, fantasmi ed enigmatiche profezie da decifrare per i suoi protagonisti.

Difficile trovare dei difetti evidenti in un prodotto destinato al piccolo schermo che già nel 2003 non aveva nulla da invidiare alla qualità di regia e scrittura propria del mezzo cinematografico. Forse però il gran cast che mettono assieme Kushner e Nichols non basta a respingere un pubblico decisamente più sensibile verso certe tematiche pure attualissime (vedi ad esempio le varie linee narrative a carico LGBTQ+, oppure la lotta senza esclusione di colpi al terribile virus infettivo), o che non ha la prontezza di decifrare a tutti i costi la miriade di scene oniriche e prettamente allegoriche che sono disseminate nel corso dei sei episodi.

Angels in America è, a tutti gli effetti, una miniserie senza compromessi, nata non per accontentare un vastissimo pubblico dai gusti democratici, bensì per aprire una necessaria ed inedita finestra su alcune delle riflessioni più interessanti sui grandi cambiamenti sociali, culturali, politici e scientifici dell’America degli anni ’80. Poco prima che il Nuovo Millennio si avvicinasse.

Trailer ufficiale

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