Il sedicenne Manuel, orfano di madre, abita con l’anziano padre – apparentemente affetto da demenza senile – che nasconde un passato misterioso. Il ragazzo finisce vittima di un ricatto da parte di tre carabinieri corrotti, che gli chiedono di infiltrarsi in un festino privato che potrebbe compromettere importanti personalità politiche, per filmare e trovare delle prove. Manuel però comprende di essere finito in un gioco più grande di lui e cerca di uscirne scappando, ignaro delle conseguenze: il ragazzo è ora costretto a rivolgersi a Polniuman, una vecchia conoscenza del genitore, il quale lo indirizza ulteriormente a un certo Cammello, un altro ex compare malato di cancro che potrebbe essere la sola ancora di salvezza rimasta.
Adagio: in fondo al tunnel – recensione (no spoiler)
Dopo l’esperienza hollywoodiana che l’ha visto dirigere un sequel d’eccellenza come Soldado (2018) – continuazione del franchise di Sicario – e il maggiormente misconosciuto Without Remorse (2021), Stefano Sollima ha fatto rientro in Italia, precisamente nella sua Roma, per riprendere quel percorso noir che tanta fortuna gli aveva dato con Romanzo criminale – La serie e Suburra (2015). Un’altra storia malavitosa ambientata nella capitale, popolata da personaggi grotteschi e sui generis che richiamano a un certo immaginario, sacrificando la verosimiglianza in favore di un impianto parzialmente caricaturale ma di effetto, complice anche un cast delle grande occasioni.
Da Toni Servillo nei panni di un anziano smemorato a comando a Valerio Mastandrea quale guest-star da cieco sacrificale fino al “cattivo tenente” di Adriano Giannini e a quel Pierfrancesco Favino glabro e malato, che risulta poi l’effettivo protagonista, Adagio può contare su volti amati e ben conosciuti dal pubblico.
Un clima bollente
Un’estate torrida, con la minaccia costante degli incendi che lambiscono la Città Eterna e gli improvvisi quanto provvidenziali sbalzi di corrente a dire la loro in un paio di scene clou, fa da sfondo a questo apologo (im)morale dove la legge è lontana anni luce e nessuno può dirsi esente da colpe, siano queste dovute a ingenuità o a un passato da rimuovere una volta per tutte, che ora chiede finalmente di pagare il conto. La sceneggiatura è senza dubbio affascinante ma non può dirsi del tutto scevra da forzature, con alcuni eccessi melodrammatici che rischiano di appesantire il racconto soprattutto per via di reazioni non sempre credibili, tra istinti salvifici e redenzioni dell’ultimo minuto.
Certo la tensione è salda e costante per tutte le due ore di visione, con alcune sequenze effettivamente suggestive anche a livello visivo e una altrettanto intelligente gestione delle pur rare dinamiche action, resa dei conti finale nella stazione ferroviaria in primis. E con un epilogo amaro che riconnette la speranza in quella gioventù che rappresenta un futuro forse migliore, pronta a correggere gli sbagli dei genitori per creare un mondo diverso.
Conclusioni finali
Malavita di borgata in una Roma consumata dal caldo, dove si dipana la personale resa dei conti tra poliziotti corrotti e alcuni ex criminali, colpevoli questa volta di aver dato una mano – volenti o nolenti – a un ragazzino vittima di un subdolo ricatto. Stefano Sollima mette in scena con Adagio una crepuscolare ballata dei perdenti, popolata da amare caricature di un mondo destinato a svanire come cenere, mostri di un passato riesumati nelle loro brutture per fare i conti con i propri sbagli e il proprio perduto. Teso e amaro, non privo di forzature ma capace di reggere il gioco di genere più che discretamente per due ore piene.